Un soffio di memoria si è levato tra i cortili silenziosi e le siepi scolpite quando gli Amici dei Musei di Vercelli hanno varcato la soglia della Villa Cicogna Mozzoni a Bisuschio. Ma ciò che rende questa visita degna d’essere consegnata alla carta – o, in questo caso, allo schermo – non è solo l’eleganza rinascimentale della dimora o la scenografica scala d’acqua che sembra condurre verso una dimensione fuori dal tempo. È stata la voce stessa del passato, incarnata nell’attuale custode di quel mondo sospeso: il conte Jacopo Cicogna Mozzoni, a guidarci lungo un sentiero di pietra, storia e sangue familiare.

Il cuore invisibile delle dimore storiche
Le ville come questa non sono semplici contenitori d’arte. Sono organismi viventi, invecchiati con grazia e ferite, la cui sopravvivenza dipende da una dedizione silenziosa, spesso ignorata. Dietro ogni finestra antica che ancora s’illumina, dietro ogni affresco restaurato, c’è il sacrificio continuo di chi ha scelto – o forse non ha mai avuto scelta – di diventare custode di una storia che non finisce mai di parlare.
Nel racconto del conte Jacopo, questa realtà si è svelata con delicatezza ma anche con un certo pudore aristocratico. Non si trattava di ostentazione, ma di una testimonianza viva: la necessità di restaurare, mantenere, documentare, aprire al pubblico, senza cedere alla tentazione di trasformare tutto in spettacolo o business senz’anima. Eppure, quanta passione occorre, quanta ostinata bellezza serve per non lasciar sprofondare un simile patrimonio nel sonno della dimenticanza?

Una visita che diventa racconto
È raro partecipare a una visita guidata dove le parole non sono solo didascalie, ma echi diretti di un tempo vissuto. Il conte ci ha narrato della caccia all’orso del 1476, che valse alla sua famiglia il favore del duca Galeazzo Maria Sforza, e con lo stesso tono affettuosamente complice ha rievocato i pomeriggi della sua infanzia, quando, nascosto tra le siepi del giardino, si divertiva ad azionare i giochi d’acqua per sorprendere gli ospiti.
Non c’erano schermi né avatar in quel microcosmo: solo la pietra, l’acqua, e il sole che danzava tra le siepi come un fantasma di luce. Ascoltandolo, sembrava di vederlo quel bambino, col sorriso storto e la manovella segreta in mano, pronto a dare vita al giardino come un piccolo dio domestico.

L’eredità come scelta quotidiana
In queste dimore, la storia non è una scenografia: è un fardello e una benedizione. Gli eredi che scelgono di non vendere, di non trasformare il tutto in resort di lusso o in reliquia impolverata, sono custodi di un’arte difficile e poco riconosciuta: l’arte della continuità.
Visitare Villa Cicogna Mozzoni in compagnia del suo proprietario non è stato solo un privilegio, ma un’occasione di riflessione. Ci ricorda che l’eredità più autentica non è quella che si riceve, ma quella che si sceglie di non abbandonare.

Con gratitudine profonda, rivolgiamo un pensiero agli Amici dei Musei di Vercelli, artefici silenziosi di questa esperienza tanto rara quanto preziosa. In un’epoca che corre veloce e consuma tutto ciò che non luccica, è grazie a iniziative come la loro se possiamo ancora sostare, anche solo per qualche ora, davanti a ciò che resiste.
E un grazie che sa di rispetto e meraviglia va al conte Jacopo Cicogna Mozzoni, che non si è limitato ad aprirci le porte della sua villa, ma ha dischiuso per noi un varco nella storia, conducendoci lungo i corridoi segreti del tempo, tra gli echi delle voci antiche e i sussurri delle stanze vissute. Non ci ha parlato da proprietario, ma da testimone. Da uomo che ha scelto di abitare il passato senza fuggire il presente.
Ascoltarlo non è stato solo imparare: è stato respirare. È stato sentire che la memoria non è polvere, ma linfa, se trova qualcuno disposto a raccontarla e qualcun altro pronto ad ascoltarla.
Sulla soglia della sua dimora, il tempo pareva essersi acquattato nell’ombra dei colonnati, come un animale antico, in attesa che qualcuno – finalmente – si fermasse. E noi, in quel preciso momento, non siamo stati turisti né visitatori. Siamo stati ospiti del tempo stesso.
O forse dei sogni che, come certe ville, non smettono mai davvero di abitare la realtà.
Marco Mattiuzzi
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