Una rilettura moderna de “Il giardino dei ciliegi” al Teatro Civico di Vercelli: un’interpretazione che disturba o arricchisce?
Il Teatro Civico di Vercelli ha recentemente ospitato una produzione audace de Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov, portato in scena da Leonardo Lidi, con un cast di tutto rispetto e una collaborazione tra il Teatro Stabile dell’Umbria e il Teatro Stabile di Torino, in sinergia con il Festival dei Due Mondi di Spoleto. Questa messinscena, ambiziosa e moderna, ha in effetti stimolato riflessioni profonde, ma ha anche suscitato in me alcune perplessità e una certa diffidenza verso certe scelte interpretative. Se da un lato è evidente l’intenzione di provocare, dall’altro alcuni cambiamenti sembrano quasi tradire lo spirito originale della commedia, portandomi a domandare se la rappresentazione abbia davvero esaltato o, piuttosto, offuscato i temi universali dell’opera.
Una commedia di transizione e crisi
Čechov, con Il giardino dei ciliegi, dipinge l’agonia della classe aristocratica russa, prossima alla scomparsa. Ljubov’ Andreevna e la sua famiglia si trovano alle soglie della perdita del loro storico giardino dei ciliegi, simbolo della decadenza di un mondo ormai anacronistico, destinato a essere spazzato via dal pragmatismo e dal denaro della nuova classe borghese, rappresentata da Lopachin, il figlio di servi che è ora colui che potrebbe acquistare e distruggere il giardino per farne lotti di villette. Čechov, con la sua tipica amarezza dolce, non si limita a descrivere il cambiamento sociale ma indaga, con umorismo e tristezza, la resistenza psicologica dell’uomo di fronte al destino, al tempo e all’incapacità di adattarsi.
È questo un mondo che non riesce a reinventarsi, in bilico tra un passato idealizzato e un futuro incerto, e proprio qui si dispiegano i sentimenti umani più profondi: la malinconia, il disincanto, l’incapacità di agire in un sistema economico e sociale che ha cambiato le regole senza preavviso.
Scelte di casting e l’impatto sul significato
Due scelte di casting hanno sollevato in me dubbi significativi, portandomi ad alzare più di un sopracciglio sul valore effettivo di tali scelte per l’economia dell’opera. Il personaggio di Charlotta Ivanovna, governante con un profondo senso di estraneità e solitudine, è stato affidato a un attore maschio, che, abbigliato in modo volutamente caricaturale, ne ha fatto una sorta di macchietta grottesca. Questo espediente, piuttosto che amplificare il lato umano e malinconico di Charlotta, ha finito per distogliere l’attenzione dai temi sociali dell’opera, facendo apparire la governante come un elemento comico piuttosto che come l’emblema della malinconia e dell’isolamento che Čechov intendeva trasmettere.
Inoltre, la parte di Ljubov’ Andreevna, fratello di Lenja Andreevna nel testo originale, è stata qui interpretata da un’attrice donna. Anche in questo caso la scelta appare poco motivata e, anziché amplificare i temi dell’opera, rischia di far perdere la dinamica familiare e sociale pensata da Čechov. Piuttosto che rendere la vicenda più attuale o profonda, questi cambiamenti di genere sembrano quasi dei cambiamenti fini a se stessi, lasciandomi interdetto sul loro effettivo valore artistico.
La regia e il dialogo con il testo originale
La regia di Leonardo Lidi ha voluto certamente sfidare il pubblico, rompendo le aspettative con scelte non convenzionali. Tuttavia, proprio in questo desiderio di innovare e sovvertire, si è rischiato di indebolire i temi chiave della commedia. I costumi, curati da Aurora Damanti, le luci e le scene di Nicolas Bovey, e il suono di Franco Visioli, costruiscono un’atmosfera in cui modernità e tradizione sembrano coesistere in tensione, accentuando il senso di smarrimento dei personaggi. Ma questi elementi visivi non bastano a compensare lo scarto tra il testo e le interpretazioni simboliche.
Resta aperto l’interrogativo: quanto le riletture moderne possano realmente avvicinare il pubblico ai temi dell’opera, e quanto invece le modifiche si trasformino in meri esercizi di stile. L’intento del regista è chiaramente di dare freschezza al messaggio e di rendere contemporanea la messa in scena, ma in un testo già così ricco di attualità – considerato che l’alienazione, il disorientamento e la perdita sono temi che risuonano oggi come allora – si corre il rischio di sviare l’attenzione dagli interrogativi profondi dell’opera.
Una performance comunque vibrante
Nonostante le perplessità sulle scelte interpretative, gli attori hanno offerto prove magistrali. Vederli così da vicino ha permesso di apprezzare ogni sfumatura, ogni inflessione di voce, che rendevano vivi i dilemmi e le emozioni dei personaggi. Mi domando se questa vicinanza non sarebbe stata ancor più incisiva lasciando che il testo parlasse da sé, senza sovrastrutture o scelte di “modernizzazione” forzate. La profondità dell’opera, che riflette un’epoca ma anche la precarietà di ogni cambiamento umano, si mostra infatti con maggior potenza se non viene “aggiornata” a tutti i costi.
In conclusione, questa interpretazione de Il giardino dei ciliegi ha avuto il merito di provocare e stimolare riflessioni. Tuttavia, permane in me il dubbio che le manipolazioni registiche abbiano finito per allontanare lo spettatore dal cuore dell’opera čechoviana, che risiede proprio nella semplicità e nella trasparenza dei sentimenti universali.
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