Nel silenzio meditativo di un fienile, tra ombra e luce, Giuseppe Pellizza da Volpedo compone un poema visivo. Non è una poesia scritta, ma dipinta: ogni pennellata è un verso, ogni bagliore di luce è una pausa riflessiva, ogni dettaglio un simbolo che sussurra verità universali. Sul fienile (1893-1894) è un’opera che sembra sussurrare all’anima, non gridare. Non c’è enfasi, non c’è dramma manifesto: tutto è contenuto, sussurrato, ma profondamente commovente. Pellizza non dipinge una scena di morte, ma una celebrazione della vita nel suo passaggio finale.
L’Italia rurale del XIX secolo e l’intento poetico del realismo
Alla fine dell’Ottocento, l’Italia sta vivendo un delicato periodo di trasformazioni. L’unificazione è ancora recente, il divario tra città e campagna rimane abissale, e le classi contadine incarnano ancora il cuore della nazione, nonostante le loro vite siano scandite dalla fatica e dalla semplicità. Pellizza da Volpedo, figlio di questa terra, non si limita a dipingere la realtà contadina: vuole comprenderla, restituirla con dignità e riverenza.
Formatosi tra Milano e Genova, influenzato dal realismo di Giovanni Segantini e dal divisionismo di matrice scientifica che esplorava la scomposizione della luce e del colore, Pellizza sviluppa una sensibilità che va oltre la tecnica. In lui il divisionismo non è solo sperimentazione ottica, ma diventa un linguaggio morale. Ogni pennellata divisa, ogni punto di colore, non rappresenta soltanto una forma: è una vibrazione vitale. Nel caso di Sul fienile, questa tecnica sembra restituire la vita stessa come un tessuto pulsante, una rete invisibile che collega ogni essere vivente.
Ombra e luce: l’eterna oscillazione tra la fine e l’inizio
L’opera si presenta come un teatro naturale. L’interno del fienile è in ombra, ma non è un’oscurità totale o soffocante: è una penombra morbida, avvolgente, che sembra proteggere il contadino disteso, quasi cullarlo nel suo ultimo riposo. Al contrario, all’esterno, la luce esplode nel paesaggio: i tetti delle case, gli alberi verdi, il cielo azzurro. La vita prosegue oltre la soglia del fienile, mentre al suo interno il tempo sembra rallentare, sospeso tra il respiro finale e la quiete eterna.
Ma la luce non è esclusa dal fienile. Filtra attraverso i vuoti delle pareti e accarezza i contorni delle figure, come a suggerire che anche in quel momento di passaggio la vita non abbandona del tutto il morente. È una luce metafisica, delicata, che non vuole interrompere la sacralità del momento.
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La scena centrale: il rito della vita e della morte
Al centro della composizione, il prete è chino sul contadino, offrendogli l’estrema unzione. È un gesto sobrio, privo di teatralità, come se fosse parte di un rituale antico e naturale. Due chierichetti lo accompagnano, ciascuno con una candela accesa. Ed è proprio nelle loro mani che Pellizza nasconde uno dei simbolismi più potenti dell’opera: la fiamma viva. Uno dei ragazzi protegge la fiamma con la mano, un gesto istintivo che assume una valenza spirituale: sembra voler custodire gli ultimi istanti di vita, trattenere quella scintilla vitale che sta per spegnersi. L’altro chierichetto regge la candela senza protezione, la fiamma arde libera, quasi a rappresentare la continuità della fede oltre la morte.
Accanto al morente, semplici oggetti: un bicchiere d’acqua e una ciotola vuota. Sono tracce silenziose della sua esistenza. Non c’è nulla di superfluo o decorativo. L’essenzialità di questi oggetti riflette la sobrietà della vita contadina, ma anche l’essenza del rito: la morte, come la vita, si consuma attraverso il necessario, non il superfluo.
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I bambini sulla scala: il futuro che osserva il passato
A destra, quasi nascosti, due bambini spuntano dalla scala a pioli. Sono due figure enigmatiche, ma carica di significato. Il loro sguardo curioso si affaccia sulla scena della morte, ma non con paura. È come se osservassero da lontano un mistero che ancora non gli appartiene, ma che un giorno comprenderanno. La scala stessa diventa un simbolo: un ponte tra i due mondi, tra la vita che comincia e quella che finisce. I bambini non sono solo testimoni, ma sono l’incarnazione del ciclo che si rinnova.
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Il divisionismo come respiro della vita
Il divisionismo di Pellizza non è un esercizio tecnico fine a sé stesso. Ogni punto di colore vibra, creando un effetto quasi musicale. L’erba, i vestiti, la luce sulle travi di legno non sono elementi statici, ma sembrano respirare, espandersi. Il risultato è un’atmosfera sospesa tra realtà e visione: il mondo contadino è rappresentato nella sua essenza tangibile, ma allo stesso tempo si apre a una dimensione simbolica. L’ombra non è solo ombra, la luce non è solo luce: ogni elemento è il riflesso di un senso più profondo.
Un’opera tra pietà e speranza
Sul fienile non è un’opera sulla morte, ma sulla continuità. La morte è solo un momento di passaggio, e Pellizza lo racconta con una delicatezza straordinaria, evitando qualsiasi eccesso retorico. C’è pietà, ma non dolore disperato. C’è consapevolezza, ma anche speranza. L’ombra avvolge il morente, ma la luce è pronta ad accoglierlo oltre la soglia.
In questo dipinto, Pellizza ci offre un insegnamento senza tempo: ogni vita lascia un’impronta, anche se semplice, anche se modesta. E ogni fine è anche l’inizio di qualcosa di nuovo, come quella fiamma che arde ancora e come quello sguardo infantile che osserva, pronto a entrare nel mondo.
Marco Mattiuzzi
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