Il 26 dicembre, in una quiete quasi sacra che segue l’effervescenza del Natale, la Chiesa rivolge i suoi occhi alla figura di Santo Stefano Martire. Questo uomo, il primo tra i sette diaconi designati per assistere gli apostoli nel loro ministero sacro, ha un volto che vive nei dipinti attraverso icone e simbolismi piuttosto che attraverso una somiglianza fisica accurata. In essenza, è un personaggio costituito più dall’aura della sua storia che dall’anatomia del suo viso.
Nell’iconografia cristiana, Santo Stefano è inconfondibile. Rappresentato spesso con delle pietre, questi massi non sono semplici dettagli, ma rappresentano il metodo della sua esecuzione, l’evento lapidario che ha sancito la sua fede con il sigillo del martirio. Ma non è solo la pietra a definire il santo; accanto a lui, spesso, giace un libro, un manoscritto che simboleggia il suo ruolo di diacono, un vessillo del Vangelo che ha portato nella sua vita e che ha poi sigillato con la sua morte.
Vestito nella dalmatica, l’abito tipico che identifica il suo ufficio diaconale, Stefano è una figura che indossa sia la sua divina vocazione che la sua tragica fine. In alcune raffigurazioni, il trigramma di Cristo, IHS, campeggia accanto a lui, un richiamo al suo legame inestricabile con il Redentore. La palma che talvolta tiene in mano non è un dettaglio superfluo, ma il simbolo universale del martirio, una sorta di stemma araldico che collega tutti coloro che hanno sacrificato la vita in nome della fede.
E poi ci sono i maestri che hanno dato vita a questa icona nei secoli. Giotto di Bondone, nel suo lavoro conservato al Museo Horne di Firenze, rende il santo una figura carica di umanità, una tempera su tavola che pone Stefano in un’aura di sacralità palpabile. Carlo Crivelli, il cui quadro risiede nella National Gallery di Londra, offre una visione più aristocratica, tempestata di dettagli che sembrano estrarre la sacralità da ogni filamento della tela. Luca Signorelli, in un’opera conservata in una collezione privata, concentra il suo talento sul martirio, presentandoci la cruda e commovente realtà della lapidazione. Infine, Francesco Francia (Francesco Raibolini), il cui dipinto si trova nella Galleria Borghese di Roma, ci dà un Santo Stefano che sembra quasi rivivere in un’eternità oliata, conservata in quel momento di immortalità pittorica.
In tutti questi capolavori, il volto di Stefano non è una fotografia, ma un collage di simboli e messaggi. Gli attributi non sono dettagli, ma chiavi di lettura, strumenti per sondare più profondamente l’anima del soggetto e, di riflesso, la nostra. Essi servono come un linguaggio universale che trascende il tempo e lo spazio, collegando fedeli di ogni epoca nella comune venerazione di un uomo la cui storia è tanto antica quanto eternamente risonante.