Un Rifugio in Pietra e Marmo: L'Incontro con la Pietà Bandini
In una mia peregrinazione artistica nella fiorentina culla del Rinascimento, trovai rifugio in una giornata inaspettatamente rigida di maggio – così gelida da indurmi all’acquisto di una sciarpa – nel santuario culturale del Museo dell’Opera del Duomo. Ah, quale piacevole prigionia! Esercizio salutare per l’anima e il cuore, la reclusione museale permette un vagabondaggio interiore, una contemplazione svincolata dai ritmi frenetici che permeano il quotidiano.
Un’infinità di tesori occupa queste sale, dai noti monumenti dell’arte alle gemme nascoste che si rivelano solo all’occhio attento e inquisitivo. Qui, dove il tempo sembra plasmarsi attorno all’arte, si può godere di capolavori tanto quanto di opere più riservate, contemplandole con la stessa dignità.
Vi confido questa mia introspettiva digressione non per divagare, ma per ambientare l’incontro estatico che ebbi con la Pietà Bandini, la quasi ultima creazione scultorea di Michelangelo. È un tentativo – per quanto vano – di replicare la sacralità del momento in cui varcai la soglia che introduceva a questa mastodontica opera incompleta.
Pur essendo immerso nella stupefazione estetica – una sensazione che fortunatamente non mi ha ancora abbandonato – fui assolutamente smarrito di fronte a questa Pietà. Un’opera che, con la sua sola presenza, cancellava tutto ciò che avevo visto prima, rivendicando la sua centralità assoluta nella mia esperienza artistica del giorno.
Tra il Sacro e il Profano: Il Contesto e la Genesi dell'Opera
Cominciata nel periodo 1546-1547 per una chiesa romana che avrebbe dovuto essere la sua tomba, l’opera fu mutilata nel 1555 per mano dello stesso Michelangelo e successivamente restaurata dall’allievo Tiberio Calcagni. La figura di Maria Maddalena, purtroppo mal proporzionata e di minore qualità, fu una sua aggiunta. L’opera fu in seguito acquisita da Francesco Bandini e poi ceduta a Cosimo III de’ Medici, trovando infine residenza definitiva nel Museo dell’Opera del Duomo nel 1933.
Michelangelo, nel suo atto quasi ascetico di creazione, optò per un blocco di marmo precedentemente scartato, noto per le sue imperfezioni e durezza tale da scintillare sotto l’incisione dello scalpello. È un dettaglio che riporta alla mente la sua contesa relazione con la materia, con il divino e con se stesso.
L’aura dell’opera è fortemente influenzata dal clima religioso degli anni del Concilio di Trento. Qui, il corpo del Cristo è reso con una gravità evidente, una fisicità inusitata, mentre l’effigie di Nicodemo – un autoritratto dello scultore – si sforza visibilmente nel sorreggerlo.
Il volto serafico delle figure accenna a un’accettazione del destino mortale, ma è la tensione dei corpi, la drammatica interazione delle forme, a rendere palpitante la narrazione. Quasi come se il tempo, l’inflessibile e impietoso tempo, sfuggisse da ogni tentativo di fermarlo.
Un Marmo Imperfetto, Una Visione Eterna
In questa fase autunnale della vita di Michelangelo, all’età di circa 75 anni – un arco di vita allora raro – il senso imminente della mortalità influenzava indubbiamente la sua arte. Giorgio Vasari, l’indispensabile cronista di quei tempi, ci fornisce una triade di motivi per cui Michelangelo avrebbe distrutto parte dell’opera: il carattere refrattario del marmo, il suo eterno inseguimento della perfezione e l’opprimente urgenza di un servitore.
Circondare quest’opera, toccare quasi con lo sguardo i segni visibili delle incisioni, soffermarsi sul volto dolorante di Nicodemo/Michelangelo, percepire l’angoscia fisica che anima questa Pietà è un’esperienza al di là del prezzo. Sembra quasi di udire ancora l’eco delle percussioni dello scalpello su quel marmo recalcitrante, in armonia con il respiro affaticato di Michelangelo, nel suo sublime tentativo di liberare l’umano e il divino intrappolati nella roccia.