Nell’era digitale, il campo dell’informazione e dell’analisi è sempre più affollato da “osservatori” che, a detta loro, agiscono come lenti analitiche attraverso cui si può vedere il vero volto della società. Si presentano come depositari delle verità assolute, un po’ come faceva l’Inquisizione nel XVI secolo. Con una differenza fondamentale: l’Inquisizione non inseriva “italiani” dopo il suo nome per creare l’illusione di rappresentare l’intero popolo italiano. Eppure, in molti casi, queste Istituzioni di osservazione e di rappresentanza non rappresentano affatto la varietà e la complessità della società italiana.
Consideriamo l'”Osservatorio Italiano sul Dialogo Interreligioso” o l'”Osservatorio Italiano sul Matrimonio e la Famiglia”. Queste organizzazioni, come molte altre, affermano di rappresentare l’opinione pubblica su argomenti delicati come il dialogo tra diverse fedi o le questioni familiari. Ma come possono queste entità parlare a nome di tutti gli italiani? Di quale autorità si fanno portatrici per imporre una sola visione della realtà, in tematiche tanto articolate?
Oppure, pensiamo al “Centro Italiano di Studi sulla Sessualità” o all'”Osservatorio Nazionale sulla Tutela dei Minori”. Questi enti si pongono come esperti, interpreti delle necessità della popolazione in questioni tanto complesse e personali come la sessualità o la protezione dell’infanzia. Ma da dove nasce il loro diritto di dettare la linea su questioni così intime e delicate?
Queste istituzioni, pur con l’intento di fare del bene, rischiano di imporre una visione monolitica su temi che, in realtà, richiedono una considerazione più articolata, inclusiva e rispettosa della diversità delle esperienze umane. Il dialogo interreligioso, il matrimonio, la sessualità, la tutela dei minori: sono tutte sfere della vita in cui c’è una molteplicità di punti di vista, di valori e di esperienze che non possono essere ridotte a un’unica “verità”.
Per tornare al paragone con l’Inquisizione, quest’ultima aveva il potere di dettare i comportamenti in nome di un ipotetico “bene comune”, un bene che però si rivelava spesso molto lontano dai reali bisogni e desideri della popolazione. E questo è esattamente il rischio che corriamo con queste moderne istituzioni di osservazione e di rappresentanza.
Le Istituzioni di osservazione e di rappresentanza, infatti, tendono a semplificare e generalizzare la realtà, riducendo la molteplicità delle voci, dei punti di vista e delle esperienze di vita in una singola “verità” uniforme. Questa uniformità, a sua volta, rischia di soffocare la diversità, l’inventiva e il dinamismo che sono il vero motore del progresso sociale e culturale.
Non si tratta di negare l’utilità di queste Istituzioni di osservazione e di rappresentanza. Al contrario, essi possono svolgere un ruolo fondamentale nel catalizzare l’attenzione su questioni importanti, nel promuovere il dibattito pubblico e nell’orientare le politiche. Ma è fondamentale che essi riconoscano e rispettino la pluralità e la complessità della società che pretendono di rappresentare.
Inoltre, è essenziale che il pubblico sia consapevole del fatto che, nonostante i loro nomi possano suonare autorevoli e rappresentativi, queste istituzioni non detengono il monopolio della verità. Dobbiamo continuare a interrogare, a sfidare e a esplorare le diverse prospettive, piuttosto che accettare acriticamente le “verità” imposte dall’alto.
Ecco quindi il nostro appello: non lasciamoci sedurre dal fascino della certezza assoluta. Sappiamo resistere all’illusione di una verità unica e definitiva. Sappiamo riconoscere e valorizzare la ricchezza e la complessità della società italiana. Solo così potremo evitare di cadere nella trappola dell’Inquisizione 2.0.