Si può scrivere una recensione di un libro che ancora non si è letto? La risposta, a rigor di logica, è no. Ma — e sappiamo bene che un “ma” è l’alchimia linguistica che trasforma ogni certezza in dubbio — proviamo lo stesso a intraprendere questo gioco di riflessi, specchi, e intuizioni.
“Il tatuaggio della farfalla” di Attilio Piovano, presentato in un pomeriggio velato da nuvole autunnali e dall’aroma discreto di caffè della Pasticceria Taverna e Tarnuzzer, sembra già farsi spazio non solo tra le pagine, ma tra i meandri della mente. Non serve leggere il libro per avvertire che le sue vibrazioni emotive si sono incarnate, nelle riflessioni dell’autore e, soprattutto, nelle emozioni che hanno avvolto ogni frase restituita dalla voce di Cynthia Burzi.
Una cornice perfetta, direi: elegante e sospesa, come se la scena fosse stata allestita in un angolo dove tempo e realtà si dissolvono.
Francesca e Flavia: due nomi, due iniziali identiche, come fossero le due metà imperfette di uno stesso specchio. Piovano, con la precisione di un musicista che modula accordi per creare dissonanze, le tratteggia non come figure di carta, ma come entità vive, che sembrano muoversi sulla scena di un teatro immaginario. Ogni movimento descritto, ogni emozione trasmessa dalle letture, si è impressa negli ascoltatori come il riflesso di una luce su una superficie scura. Ed è proprio questa luce, questa intimità illuminata da un unico “spot” metaforico, che evoca la sensazione di trovarsi in un palcoscenico di anime. Lì, Francesca e Flavia non camminano: danzano, tremano, vivono.
Queste due figure femminili, legate da una passione viscerale per l’arte e da un legame tanto affascinante quanto tormentato, sembrano attraversare un labirinto emotivo che l’autore stesso, con uno sguardo chirurgico ma mai freddo, disseziona per offrire al lettore non una risposta, ma una domanda. Le letture di Cynthia, così come i frammenti di dialogo tra Maria Lacchio e Piovano, mi ha suggerito che questo libro non è solo un thriller psicologico, ma un viaggio nelle ombre più profonde dell’identità, dove la realtà si fonde con il teatro dell’esistenza.
Immagino Francesca e Flavia su quel palcoscenico buio, illuminate solo da una luce fioca che ne disegna i contorni. Una voce fuori campo — quella dell’autore? Quella della nostra coscienza? — narra i loro gesti, amplifica i loro silenzi, sussurra le loro paure. Ed è lì, in quel punto in cui finisce la descrizione e inizia l’immaginazione, che il romanzo vive. Non importa che le pagine non siano state sfogliate; l’eco delle emozioni, il ritmo delle parole, il respiro trattenuto tra un passaggio e l’altro, hanno già tracciato una mappa nella mente.
Forse “Il tatuaggio della farfalla” non è un libro da leggere, ma un’esperienza da vivere. Un teatro di specchi e ombre, di musica e silenzio, dove ciò che conta non è comprendere, ma sentire. Forse, dopotutto, è già questo il senso di una recensione impossibile: cogliere l’anima di un’opera prima che questa ti sveli la sua storia.
Marco Mattiuzzi
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