C’era un’aria di aspettazione quasi tesa mentre avanzavo tra le sale del Teatrino di Corte della Reggia di Monza. Qui, immerso tra mura cariche di una storia tanto ancestrale quanto viva, il mondo di Mario Arlati mi attendeva. L’artista milanese, in attività dalla fine degli anni ’70, aveva un talento unico nel comunicare con il suo pubblico attraverso un linguaggio che fonde la forza viscerale della materia alla sublimazione del colore.
Mario Arlati non è un pittore di mere superfici piane o immagini bidimensionali. Le sue opere avanzano verso l’osservatore, creando crateri, ferite e strappi; sono manifestazioni di una lotta ardente e continua con la materia. A momenti, mi sembrava che Arlati volesse farci perdere il senso dello spazio, costringendoci a impegnarci con la tridimensionalità delle sue opere. Arlati stabilisce un ritmo, un nuovo tempo per osservare, sentire, e immergersi nel suo mondo.
Questo spazialismo rappresenta forse un bisogno di avanzare oltre i confini convenzionali. Per lui, la materia è un partner attivo, pronto a essere scavato, inciso, e scolpito. C’è una sorta di simbiosi tra l’artista e il mezzo, in cui Arlati impone la sua visione senza compromettere la genuinità della materia.
E poi c’è la sua poetica del colore. I toni radianti del Mediterraneo permeano gran parte della sua arte. È come se Arlati attingesse dall’energia cromatica del mare, del cielo e della terra per imprimere nei suoi lavori quella stessa forza vitale. La ricerca di una purezza cromatica sembra quasi una vocazione per lui. Ero in grado di percepirlo nella complessità dei suoi blu, nel calore dei suoi rossi, nell’intensità dei suoi verdi.
Passeggiare attraverso la mostra nella Sala Consiliare diventava, così, un percorso di crescita interiore. Ogni opera rappresentava una tappa, una riflessione, una sfida per gli occhi e per l’anima.
Man mano che mi spostavo tra le opere, la curiosità di conoscere meglio l’uomo dietro la tela diventava incontenibile. Mario Arlati, come ho scoperto, è un viaggiatore non solo nello spazio fisico, ma anche in quello interiore dell’anima. Nato nel cuore del Novecento, il suo percorso artistico ha preso il via alla fine degli anni ’70. Da allora, il suo linguaggio ha subito un’evoluzione, un dialogo costante tra l’essenziale e il complesso, tra l’astratto e il materico.
Arlati è un alchimista della materia. Nelle sue mani, la tela diventa un terreno fertile per scavo, incisione e scultura, trasformandola in superfici tridimensionali che sfidano una lettura lineare. La sua è una continua esplorazione della materia che rifiuta di rimanere passiva, come se volesse liberare gli spiriti intrappolati nel tessuto.
La sua arte è un prodotto di un’avanguardia che lo ha spinto a generare superfici modellate e vive. E nei suoi lavori stratificati, emerge un amore viscerale per il Mediterraneo. Quella distesa d’acqua è stata più di una musa; è stata un teatro per il suo gesto artistico. Il colore per lui è più di una tonalità; è un’anima. Sembra che le sue tele desiderino assorbire la luce e il blu profondo del mare per eternizzarli.
Emergendo da questo contesto, c’è una necessità rigorosa: quella di invitare l’osservatore a perdersi, a entrare in dialogo con l’opera fino a diventarne parte.
E così, all’uscita dalla Sala Consiliare della Reggia di Monza, sentivo di aver conosciuto non solo l’artista, ma anche l’uomo, l’alchimista, il viaggiatore. Avevo captato il suo impulso di confrontare la materia, di giocare con la luce e di interagire con il tempo. Comprendere che la vera arte è proprio questo: un dialogo ininterrotto, non solo tra l’artista e il suo mezzo, ma tra l’opera e chi la osserva; un dialogo che continua anche quando le luci della sala espositiva si spengono.