L’Oratorio della Confraternita dei Battuti a Vallada Agordina, situato accanto alla storica chiesa di San Simon, custodisce strumenti che evocano una pratica devozionale ormai lontana dal nostro modo di vivere la spiritualità: la flagellazione.
I flagelli presenti nell’oratorio erano strumenti di penitenza utilizzati dai confratelli, i cosiddetti Battuti, durante rituali religiosi. Questi strumenti, formati da manici di legno con catene o corde, venivano impiegati per autoflagellarsi, un atto che incarnava la ricerca di purificazione e l’espiazione dei peccati. Il dolore inflitto da questi strumenti era visto come un modo per avvicinarsi a Dio, imitando le sofferenze di Cristo.
Per i membri della Confraternita, la flagellazione era un atto comunitario, eseguito spesso in pubblico durante processioni o cerimonie. Nonostante oggi questa pratica possa sembrare estrema, nel contesto storico di allora rappresentava un modo per dimostrare devozione e sottomissione alla volontà divina. Gli strumenti esposti risalgono al XVIII-XIX secolo e sono una testimonianza di una fede che concepiva il dolore fisico come mezzo di redenzione.
Oggi, questi oggetti suscitano curiosità e riflessione, offrendoci uno sguardo su un’epoca in cui la religione permeava ogni aspetto della vita e il sacrificio personale era considerato un atto supremo di fede. La distanza tra quella visione del mondo e la nostra ci invita a riflettere su come la percezione del dolore e della spiritualità sia cambiata nel tempo.
Nel riflettere su queste antiche pratiche di purificazione tramite il dolore, come la flagellazione praticata dai Battuti, non si può fare a meno di notare quanto sia radicalmente cambiato il nostro approccio alla sofferenza e al corpo umano. In passato, il dolore era visto come uno strumento per avvicinarsi al divino, un mezzo per espiare i peccati e purificare l’anima. Questo concetto di sofferenza come via di redenzione era profondamente radicato nella spiritualità di un’epoca in cui la vita terrena era considerata solo un passaggio, spesso doloroso, verso una salvezza eterna.
Oggi, invece, viviamo in una società che ha fatto del benessere un obiettivo quasi ossessivo. Siamo costantemente alla ricerca di comfort, di piaceri immediati e di un’apparente perfezione fisica. Questa ricerca del benessere, spinta all’estremo, ci porta a evitare il dolore in ogni sua forma, sia fisica che emotiva, relegandolo a un’esperienza negativa da evitare a tutti i costi. La sofferenza, un tempo percepita come purificatrice, è ora vista come un ostacolo al nostro obiettivo di felicità e realizzazione personale.
In parallelo, si è sviluppata una cultura dell’apparenza, in cui l’esteriorità assume un’importanza preponderante. La società moderna spesso valuta le persone in base a come appaiono, piuttosto che a ciò che possiedono interiormente. Questo culto dell’immagine porta a una superficialità diffusa, dove l’apparire diventa più importante dell’essere. Si cerca di mostrare al mondo una versione perfetta di sé stessi, nascondendo le imperfezioni e reprimendo la sofferenza, anziché abbracciarla come un’esperienza umana fondamentale.
Questa distanza tra l’antica visione del dolore come via di purificazione e la moderna ricerca del benessere e dell’apparenza riflette un cambiamento profondo nella nostra comprensione del corpo e della spiritualità. Il rischio, oggi, è di perdere di vista il valore della profondità interiore, del carattere e dell’anima, a favore di un’immagine che è solo una facciata, priva della sostanza che una volta definiva la nostra esistenza e il nostro rapporto con il divino.