L’esposizione di Angelo Molinari presso Studio Dieci a Vercelli si presenta come un’esperienza immersiva, capace di trascendere la semplice osservazione delle opere per trasformarsi in un viaggio sensoriale. Il carattere suggestivo della galleria, con i suoi spazi oscuri e le sue architetture ricche di storia, non si limita a ospitare i lavori dell’artista, ma li amplifica, li avvolge in un’atmosfera di mistero e risonanza.

L’allestimento: il dialogo tra luce e ombra
L’uso della luce è uno degli elementi fondamentali di questa mostra. I fasci luminosi selettivi, che emergono dal nero delle pareti, trasformano ogni opera in una presenza quasi sospesa, come se il colore stesso fosse un frammento di materia in procinto di dissolversi o di prendere nuova forma. Questo è particolarmente evidente nelle tele bianche e grigie, dove le pennellate ampie e materiche sembrano catturare il riflesso della luce, come se la superficie fosse una traccia di energia lasciata nell’aria.
Il contrasto tra le tele chiare e lo sfondo scuro della galleria crea un effetto di sospensione: le opere non si limitano a essere viste, ma vibrano nello spazio, giocando con il senso di profondità e di movimento. In una delle sale, una singola tela incastonata in una nicchia buia sembra quasi un’icona contemporanea, un punto di luce in un vuoto silenzioso.

La pittura come suono e vibrazione
L’impressione dominante è che la pittura di Molinari non sia statica, ma sonora. Le pennellate larghe e gestuali, che attraversano la superficie come onde d’energia, evocano il ritmo della musica, il battito del respiro. Sono movimenti, non segni, tracce di un gesto che si espande e risuona.
Questa sensazione si amplifica nelle installazioni con pannelli trasparenti e dipinti con pennellate di verde e blu, collocati in uno spazio gotico con volte affrescate. Qui la pittura si fa aria, filtrando la luce e creando un gioco di sovrapposizioni e riflessi. Il colore diventa un elemento fluido, che non si limita alla superficie del supporto ma interagisce con l’ambiente circostante, trasformando lo spazio in una sorta di partitura visiva.
Materia e memoria: il rosso della terra e del sangue
Un altro momento forte della mostra è rappresentato dalle opere che esplorano il rosso, un colore denso, carnale, vibrante. In uno degli ambienti più suggestivi, una grande tavola in legno con una lastra dipinta di rosso è al centro di una stanza dalle pareti antiche e consumate dal tempo. L’opera assume quasi un aspetto rituale, un altare di materia pittorica che sembra evocare qualcosa di arcaico, di primordiale.
La sua collocazione è magistrale: la volta della stanza, segnata da crepe e ombre, sembra dialogare con la pittura, come se la storia delle pareti e la stratificazione del colore si rispondessero in un racconto muto. In questo contesto, il rosso diventa un colore ancestrale, legato alla terra, al sangue, alla memoria.
Dalla carta alla pittura: frammenti di viaggio
Infine, la presenza di piccole opere incorniciate, collocate lungo una parete scura vicino a una finestra, introduce un altro registro nel linguaggio di Molinari. Questi lavori su carta, con sovrapposizioni di materiali e segni grafici, sembrano pagine strappate da un diario di viaggio, frammenti di memorie visive. Sono piccole mappe del vissuto, dove il colore diventa segno di un percorso, una traccia lasciata nel tempo.
Una pittura che si espande nello spazio
Questa mostra di Angelo Molinari non è un semplice percorso tra opere, ma un’esperienza immersiva, in cui la pittura diventa vibrazione, respiro, materia in movimento. Le sue tele e installazioni non si limitano a occupare lo spazio, ma lo trasformano, creando un continuo dialogo tra luce e ombra, tra gesto e silenzio.
A emergere è un linguaggio pittorico che sfugge alle definizioni, oscillando tra il segno e il suono, tra il visibile e l’invisibile. Una pittura che non racconta, ma evoca, che chiede di essere ascoltata come una musica, più che letta come un testo. E in questo sta la sua forza: nel rendere il colore un’esperienza fisica, una traccia di esistenza che continua a risuonare anche dopo aver lasciato la galleria.
Marco Mattiuzzi
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