L’osservazione di antiche strutture architettoniche è un’esperienza che ha il potere di stordire lo spirito tanto quanto un quadro di grande maestria o una sinfonia di sublime bellezza. Ogni mattone, ogni colonna, ogni dettaglio è come una pennellata su una tela vasta e complessa.
Nel cuore di Vercelli, l’Abbazia di Sant’Andrea si erge come un palcoscenico dove passato e presente s’incontrano e sussurrano segreti noti solo a chi sa ascoltare. Datata al 1200, questa straordinaria fusione di stili romanici e gotici porta con sé tracce di mani che l’hanno edificata, modificata, e perfino deturpata nel corso dei secoli.
Passeggiare sotto il portico del chiostro è come attraversare un corridoio nel tempo. La sequenza di mattoni perfetti lungo le pareti cambia improvvisamente, rivelando una sezione di muratura evidentemente diversa. È come se qualcuno avesse strappato una pagina da un libro antico per inserirne una nuova, scritta con un inchiostro diverso e un carattere straniero.
Ma non è un’aggiunta, come potrebbe sembrare a prima vista. Piuttosto, è una sottrazione, un’assenza. C’era un tempo in cui un contrafforte imponente interrompeva il passaggio, come un vecchio custode che non vuole essere ignorato. Ma evidentemente, qualche abate passato ha deciso che era più un fastidio che una necessità. E così, con una decisione che quasi sfida la gravità, il contrafforte fu amputato alla base, lasciando la sua estremità superiore sospesa sopra l’arco come un fantasma di pietra.
Da quando ho scoperto questa anomalia, una sorta di timore reverenziale mi assale ogni volta che attraverso quel particolare tratto del portico. Mi fermo, alzo lo sguardo e per un istante penso all’irrevocabilità del tempo e alle scelte che alterano per sempre il volto di ciò che tocchiamo.
Forse è irrazionale, ma evito di passare proprio sotto quell’arco. Dopotutto, nel linguaggio silenzioso dell’architettura, non si sa mai quali segreti si nascondano e quali avvertimenti si celino nelle pieghe della storia.