Paesaggi dipinti: un viaggio tra luce, natura e simbolo al Castello di Novara

Dal naturalismo romantico al divisionismo simbolico, la mostra al Castello di Novara esplora come la luce abbia trasformato la pittura di paesaggio italiana.

L’incanto di un paesaggio dipinto: un viaggio attraverso la luce e la memoria

C’è un momento, nel silenzio di una sala d’esposizione, in cui il tempo si ferma e la tela diventa finestra su un altro secolo, su un mondo in cui la natura, osservata, pensata e trasfigurata, si fa specchio dell’anima. Visitare la mostra sui paesaggi al Castello di Novara significa lasciarsi condurre in un viaggio che parte dalla veduta settecentesca, ancora ancorata alla precisione topografica, per poi naufragare dolcemente nell’abbraccio della luce divisionista e nei simbolismi della montagna alpina.

È un percorso che parla di terre lombarde, di campagne, di colline e di valli inondate di chiarori soffusi, dove ogni albero e ogni torrente sembra possedere un segreto. Ma è anche il racconto di una trasformazione interiore, del passaggio da un’arte che si limita a osservare a un’arte che interroga e risponde, che esplora il confine tra realtà e percezione, tra ciò che vediamo e ciò che sentiamo.

Ernesto Bertea: Un pozzo di cascina (Delfinato), 1874
Ernesto Bertea: Un pozzo di cascina (Delfinato), 1874

Agli inizi dell’Ottocento, la pittura di paesaggio è ancora prigioniera del dato oggettivo: ponti, fiumi e fabbriche si dispongono ordinatamente sotto il pennello dei vedutisti. Eppure, già nei limpidi panorami di Luigi Basiletti o nelle affascinanti vedute di Giuseppe Bisi, qualcosa inizia a mutare. La luce non è più soltanto uno strumento di descrizione, ma una vibrazione emotiva che s’insinua tra i colori, un invito a sentire l’aria che circonda i luoghi rappresentati. È il preludio al cambiamento: il paesaggio non sarà più solo un soggetto, ma uno stato d’animo.

Il naturalismo romantico d’oltralpe porta la sua ventata di novità. Artisti come Alexandre Calame — il grande maestro della scuola svizzera — introducono la visione di una natura grandiosa, quasi sacra, in cui ogni dettaglio ha un peso mistico. Non c’è più il bisogno di fedeltà alla realtà: ora è la luce a rivelare la verità, a trasformare una semplice veduta alpina in una meditazione sul sublime. Antonio Fontanesi, con il suo soggiorno a Ginevra e il contatto diretto con gli artisti della scuola di Barbizon, assorbe questa lezione e la restituisce nei suoi paesaggi in plein air, dove il cielo sembra respirare sopra i campi, e il vento muove dolcemente le foglie come se volesse sussurrarci storie dimenticate.

Ernesto Bertea: Un pozzo di cascina (Delfinato), 1874
Ernesto Bertea: Un pozzo di cascina (Delfinato), 1874

La mostra si popola così di incontri e sodalizi, piccoli cenacoli artistici in cui l’amicizia si intreccia alla sperimentazione. A Rivara, nelle campagne del Canavese, Carlo Pittara, Ernesto Bertea e Vittorio Avondo creano un microcosmo creativo che abbraccia la realtà rurale con un’intimità nuova. Non c’è idealizzazione: i loro campi, le loro cascine, perfino i sentieri fangosi sono veri, palpabili, ma trasfigurati da una tavolozza che cattura la vita segreta della natura. È qui che la pittura italiana abbandona definitivamente la sua impostazione accademica per abbracciare il gusto di una verità quotidiana e spontanea.

Ma il vero punto di svolta si compie negli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo, quando la pittura di paesaggio lombarda sposa le sperimentazioni impressioniste. Gaetano Fasanotti e Luigi Riccardi, professori di paesaggio a Brera, portano i loro allievi nelle campagne milanesi, li incoraggiano a dipingere dal vero, a catturare la luce cangiante del giorno. Non c’è più spazio per le rigide composizioni prospettiche: la natura è frammento, impressione, il risultato di un istante irripetibile. Le pennellate si fanno larghe, materiche, veloci. La composizione si semplifica, si costruisce per piani paralleli che ampliano la veduta, restituendo l’ariosità del paesaggio come una realtà in continua trasformazione. È in questa fase che si pongono le basi per il divisionismo, il linguaggio che segnerà la fine del secolo.

Carlo Fornara: Fine d'autunno in Valle Moggia (1908 circa)
Carlo Fornara: Fine d'autunno in Valle Moggia (1908 circa)

Quando si arriva alle sale dedicate a Giuseppe Pellizza da Volpedo, il viaggio sembra aver raggiunto la sua destinazione. Pellizza, dopo aver assimilato la lezione dei maestri inglesi come Turner e Constable e aver meditato sulle luci di Fontanesi, fa del paesaggio una riflessione filosofica sulla luce stessa. La Clementina e Valletta a Volpedo non sono semplici vedute campestri, ma composizioni complesse, dove i pieni e i vuoti guidano lo sguardo, le simmetrie e le asimmetrie costruiscono un ritmo visivo che risuona come una melodia silenziosa. La luce, nei suoi quadri, è presenza viva, forza creatrice e rigenerante.

È proprio il divisionismo a offrire alla luce il ruolo di protagonista assoluta. Segantini, Longoni e gli altri pionieri di questa tecnica spezzano la realtà in piccole pennellate puntiformi, scomponendo il colore per ricostruirlo in una sinfonia di vibrazioni ottiche. Nelle loro mani, la luce diventa simbolo, incarnazione di valori eterni. Nei paesaggi alpini di Segantini, la montagna è al tempo stesso rifugio e minaccia, luogo di ascesa spirituale e di fatica mortale. Non è più solo la montagna fisica, ma una montagna dell’anima.

Giuseppe Pellizza da Volpedo: Sul fienile (1893-1894 circa)
Giuseppe Pellizza da Volpedo: Sul fienile (1893-1894 circa)

E poi c’è la sala dedicata a Leonardo Bazzaro e ai suoi momenti di vita familiare all’Alpino, tra giardini fioriti e terrazze affacciate sul Mottarone. Qui, la pittura abbandona l’epico per abbracciare l’intimo: i suoi quadri sono istantanee di un mondo sereno, popolato da parenti, amici, e dall’amatissima moglie ritratta tra ortensie e siepi rigogliose. La luce si fa dolce, accarezza i volti e i tessuti, e ogni scena sembra sospesa in una bolla di quiete domestica. È un ritorno alla realtà, ma non è lo stesso punto di partenza: dopo il viaggio tra luce e simbolo, anche la quotidianità appare trasformata, pregna di significati nascosti.

La mostra al Castello di Novara non è solo un’esposizione di dipinti, ma una lezione sulla memoria dei luoghi e sulla loro capacità di trascendere il tempo. Attraverso i paesaggi, abbiamo osservato la lenta ma inesorabile metamorfosi dell’arte, dal semplice osservare al sentire e, infine, al riflettere. E quando si lascia la sala, la luce che inonda le strade sembra diversa, più vibrante, come se anche noi avessimo imparato a guardarla con occhi nuovi.

Marco Mattiuzzi
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By Marco Mattiuzzi

Artista poliedrico, ex docente e divulgatore, ha dedicato anni all'arte e alla comunicazione. Ha insegnato chitarra classica, esposto foto e scritto su riviste. Nel settore librario, ha promosso fotografia e arte tramite la HF Distribuzione, azienda specializzata nella vendita per corrispondenza. Attualmente è titolare della CYBERSPAZIO WEB & STREAMING HOSTING. Nel 2018 ha creato il gruppo Facebook "Pillole d'Arte" con oltre 65.000 iscritti e gestisce CYBERSPAZIO WEB RADIO dedicata alla musica classica. Collabora con diverse organizzazioni culturali a Vercelli, tra cui Amici dei Musei e Artes Liberales.
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