Visitando la Biennale di Venezia si ha spesso la sensazione di trovarsi di fronte a visioni da sogno: città che non esistono, scenari di mondi paralleli o futuri inquietanti. Quest’anno, nell’ambito delle mostre collaterali, l’artista Wong Weng Cheong ci offre “Above Zobeide”, un’opera che, attingendo alle atmosfere rarefatte e alle profonde riflessioni filosofiche di Le città invisibili di Italo Calvino, ci fa immergere in una sorta di distopia ultramoderna. Più che un’esposizione, questo è un mondo sospeso tra natura e civiltà, tra l’umano e l’alieno, un paesaggio mentale che trova corpo nei dettagli complessi e stranamente affascinanti dell’installazione.
Un paesaggio di creature mutanti e sogni infranti
Il fulcro dell’installazione è il mondo di Zobeide, una città immaginata da Calvino come luogo di desiderio e inseguimento. Nella versione di Wong, Zobeide si è trasformata in un paesaggio inospitale abitato da creature mutanti: enormi cervi dalle gambe allungate e dai corpi emaciati si stagliano davanti a strutture architettoniche geometriche e fredde. Questi animali, con le loro zampe sproporzionate, sembrano vivere uno stato di disagio perenne, come se fossero stati strappati dal loro habitat naturale per essere posizionati qui, in una sorta di limbo architettonico. Le creature non sono semplicemente degli animali “mutati”, ma appaiono come simboli, corpi deformati dalla civiltà stessa che li circonda. La loro forma richiama un mondo in cui il rapporto con la natura è stato distorto e, forse, irrimediabilmente corrotto.
Il contrasto tra il mondo selvaggio e la precisione geometrica delle strutture urbane è palpabile, quasi doloroso. C’è una malinconia in questi cervi dalla pelle spessa e dall’aria smarrita, come se portassero in sé il peso di una civiltà che li ha prima alterati e poi abbandonati. Guardandoli, lo spettatore non può fare a meno di interrogarsi sul prezzo che la natura paga per la modernizzazione e il progresso umano. Essi sono “domestici e selvaggi al contempo”, come nota il curatore nella dichiarazione espositiva: creature senza un posto nel mondo, alienate tanto quanto i loro stessi corpi.
Zobeide, metafora di un mondo in crisi
La curatorial statement chiarisce l’intenzione dell’artista: Above Zobeide non è soltanto una distopia ecologica ma anche un’analisi della psiche umana nell’epoca della globalizzazione e dello sradicamento. Wong si ispira alla complessità migratoria del nostro tempo, riflettendo su come le dinamiche di appartenenza e alterità si siano fatte più liquide, indefinibili. La città di Zobeide diventa allora un simbolo di questi processi: un luogo non-luogo in cui tutti sono stranieri, “un atopia” in cui nessuno è davvero a casa. Nel mondo di Wong, questo esilio non riguarda solo i migranti o i popoli in transito, ma l’intera civiltà moderna, sospesa in un ciclo perpetuo di costruzione e distruzione, di perdita di identità e desiderio mai appagato.
La distopia di Macao: una Venezia moderna
Le riflessioni di Wong risuonano profondamente a Venezia, città storicamente intrecciata con le dinamiche dell’incontro tra culture. Tuttavia, il riferimento a Zobeide diventa anche una chiave per interpretare la stessa Macao, città natale dell’artista e nodo globale tra oriente e occidente. Il testo curatoriale pone enfasi su come l’artista vede Macao come un microcosmo della modernità — un crocevia di culture, lingue e identità, ma anche un luogo che ha assorbito le ansie e le alienazioni della globalizzazione. Wong utilizza questa connessione per andare oltre la semplice rappresentazione di un mondo frammentato: egli ci invita a riflettere su come il moderno influenzi la percezione dell’identità e come la natura venga sacrificata nel processo di costruzione delle nostre città e delle nostre società.
Tecnologie di sorveglianza e spazi alienanti
Non sfuggono i dettagli tecnologici dell’installazione: le videocamere, i monitor, i cavi che si intrecciano in un disordine quasi viscerale. Sono elementi che ricordano i sistemi di sorveglianza onnipresenti nel mondo moderno, suggerendo che questa Zobeide sia osservata costantemente, una città in cui ogni movimento è registrato, analizzato, forse giudicato. Gli schermi appesi alle pareti riprendono frammenti della mostra stessa, creando una strana circolarità tra osservatore e osservato: chi guarda è a sua volta osservato. La tecnologia non è solo uno strumento, ma un’ulteriore estensione dell’alienazione, una barriera che separa l’uomo dalla natura, come se Wong ci volesse ricordare che ormai viviamo in un’epoca in cui non ci è più concesso un vero rapporto intimo con il mondo.
Riflessi e identità sospese
Il viaggio di Wong sembra essere, infine, una ricerca personale tanto quanto collettiva. Nei monitor, nei video, e nelle sue sculture di cervi macilenti, si intravede il riflesso di un artista che ha reso la propria estraneità alla città una forma d’arte. L’artista stesso diventa un “estraneo”, un outsider della propria terra, simbolo di una società che ha perso i propri riferimenti e vive una crisi d’identità continua. In fondo, l’opera Above Zobeide è anche un’indagine sull’identità dell’artista stesso, che si muove con cautela tra realtà e illusione, tra i resti di un mondo che sembra svanire.
In definitiva, Above Zobeide non è solo una rappresentazione di una città immaginaria o un omaggio a Calvino, ma un complesso paesaggio di ansie e riflessioni sull’epoca moderna. Le sculture dei cervi, con le loro lunghe zampe e il loro sguardo vacuo, rimarranno impresse nella memoria dello spettatore, come presenze inquietanti di un mondo che potrebbe essere il nostro, deformato, eppure in qualche modo familiare. È un’opera che chiede di essere vissuta, più che osservata, un’esperienza immersiva che lascia un senso di meraviglia e malinconia. Venezia, con il suo passato di incontri culturali, è il luogo perfetto per ospitare questa visione di un mondo che si interroga sulle proprie radici, ma che sembra destinato a non ritrovarle mai del tutto.
Marco Mattiuzzi
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