La Chiesa di San Simon di Vallada, situata nella provincia di Belluno, non lontano da Falcade, è un luogo che porta con sé secoli di storia e spiritualità. Questo angolo del Veneto, immerso tra le montagne e avvolto dal silenzio della natura, è una testimonianza di fede e devozione, un rifugio per l’anima di chi cerca pace e riconciliazione. Qui, ai piedi di una chiesa che ha visto passare innumerevoli generazioni, si trova un ingresso laterale carico di significato. La porta di legno massiccio si apre su una scalinata dove la pietra, levigata dal tempo, racconta una storia fatta di passi e di preghiere.
È proprio su quei gradini che, con il trascorrere degli anni, il continuo via vai dei devoti ha lasciato un segno tangibile, un avvallamento nel marmo che testimonia il passaggio di innumerevoli anime. Ogni persona che ha varcato quella soglia ha inconsapevolmente contribuito a modellare la pietra, trasformandola in un simbolo di persistenza e fede.
Immagina, se puoi, il passo lento e devoto di migliaia di anime che, nel corso dei secoli, hanno solcato quel gradino di pietra. Ogni pellegrino, ogni fedele, ha aggiunto un impercettibile carico alla storia, un passo dopo l’altro, con la preghiera sussurrata, il silenzio riverente, o forse un pensiero fugace rivolto a ciò che sta oltre. E con ciascun passo, il gradino si è modellato, si è incurvato, piegandosi dolcemente sotto la forza del tempo, un tempo che non si misura con gli anni, ma con le orme lasciate.
Come una conchiglia che si adatta all’incedere delle onde, il gradino ha accolto, senza mai cedere del tutto, l’incessante andare e venire di coloro che, in cerca di una risposta o di un conforto, hanno attraversato quella soglia. La pietra, così solida e sicura, ha ceduto di fronte alla fragile perseveranza dell’essere umano, che in quel luogo ha trovato un varco, un passaggio tra il sacro e il profano, tra la vita terrena e l’eterno.
E poi c’è quella porta, che si è chinata, quasi in segno di rispetto, verso il gradino consunto. Non poteva ignorare la fatica impressa in quel solco, la testimonianza muta ma eloquente di generazioni che l’hanno varcata. E così, un’aggiunta di legno, una piccola riparazione, come una carezza posata con dolcezza sulla ferita del tempo, ha restituito equilibrio, permettendo ancora una volta il transito, senza dimenticare.
Nel solco scavato dal passo dell’uomo si cela una storia non scritta, una storia che parla di fede, di speranza, di timori. È il segno lasciato da chi è venuto prima di noi, una traccia che sfiora l’anima e ci ricorda che anche noi, in fondo, siamo solo di passaggio. Ma è in questo passaggio, in questo incedere lento e costante, che lasciamo la nostra impronta, come quei fedeli che, inconsapevolmente, hanno inciso nella pietra il racconto del loro andare.
Eugenio Montale avrebbe forse colto, in quell’avvallamento, la metafora di un’esistenza che si consuma nel suo stesso perpetuarsi, ma che, nel farlo, lascia una traccia duratura, un segno indelebile che, pur invisibile ai più, rimane impresso nel cuore di chi sa ascoltare. Così come la pietra conserva il ricordo dei passi, anche noi portiamo dentro di noi l’eco di chi ci ha preceduto, in un viaggio che continua, giorno dopo giorno, sulle stesse orme, verso l’ignoto.